domenica 15 marzo 2020


                                                           KIERKEGAARD

                                            

Il pensiero di Kierkegaard è profondamente immerso nella cultura della Danimarca del suo tempo, permeata dall’ascendente di Hegel e dell’idealismo. Le elaborazioni del filosofo si porranno, però, in netto contrasto con la cultura accademica dominante e saranno segnate da uno stile personale che abbandonava il rigore del linguaggio filosofico e la sua pretesa oggettività. Difatti, le caratteristiche della sua filosofia furono:   
L’esistenza: l’importanza assegnata all’esistenza concreta degli uomini. È il singolo, l’individuo fatto di carne e ossa, con le sue esigenze e i suoi dubbi a costituire l’oggetto della sua ricerca. Kierkegaard abbandona ogni pretesa astrazione generalizzante, ogni necessità e si concentra unicamente sulle scelte e le opportunità della persona concreta.
La possibilità: la centralità del criterio della possibilità, concepita come la cifra caratteristica dell’esistenza umana. Per Kierkegaard è “possibilità-che-sì” ma anche, al tempo stesso, “possibilità-che-non”. Con ciò il filosofo intende dire che ogni scelta, ogni opportunità che si presenta all’uomo, impone sempre che se ne scartino altre. C’è un rischio ineliminabile in ogni opportunità esistenziale che porterà lo stesso filosofo all’immobilismo.
La riflessione soggettiva e la storia: una rivalutazione della riflessione soggettiva, appassionata, in cui l’uomo viene inserito nel contesto in cui vive senza garanzie e senza sapere o sperare di poter percorrere una strada già segnata. La storia, secondo Kierkegaard, è il risultato dell’azione incerta, casuale e problematica dell’individuo.
L’aut-aut: il credere che la vita, nel suo farsi, sia sempre caratterizzata da una scelta che obbliga ad un “aut-aut”.

-GLI STADI DELLA VITA:
Nell’opera Aut-Aut Kierkegaard presenta i primi due stadi esistenziali, cioè le due alternative di vita che si presentano come scelte inconciliabili all’uomo: o l’una o l’altra, senza nessuna soluzione di continuità o tentativo di mediazione. 
LA VITA ESTETICA: Il primo stadio analizzato è quello della vita estetica: è il modo di vivere in cui l’uomo rifiuta la banalità, la monotonia, l’impegno ma ricerca solo e soltanto il piacere inebriante dell’avventura e dell’attimo intenso e fugace. Emblema di questo stadio è la figura del don Giovanni mai pago delle sue conquiste amorose. Ma, a detta del filosofo, il continuo passare da una “storiella” all’altra è per il don Giovanni la prova lampante della sua incapacità di stringere relazioni e sentirsi appagato. Scegliendo tutte le donne, il seduttore in verità non ne sceglie nessuna. Così, la vita estetica è il preludio prima della noia e poi della disperazione. Scegliendo di non scegliere, in quanto rifiuta il peso di qualsiasi impegno, l’esteta si ritrova a fare i conti con una vita vuota, priva di identità e senso. Ma, scegliendo la disperazione, l’uomo può liberarsi dalle modalità di questa vita per abbracciarne un’altra: la vita etica. 
LA VITA ETICA: questo secondo stadio si fonda sulla scelta, sull’essere protagonisti di un compito e di portarlo avanti con costanza. Emblema di questo stadio è il buon marito, l’impiegato in cui l’individuo decide di abbracciare un “modello” di comportamento e la “normalità”. All’eccezionalità dello stadio etico sopraggiunge la routine. Tuttavia, anche questo stadio è destinato a condurre l’uomo alla disperazione e all’angoscia in quanto l’individuo, seguendo “ciò che va fatto”, non riesce davvero a realizzare la propria singolarità ma si abbandona al conformismo e all’anonimato. La tranquilla e modesta vita che ha scelto, inoltre, non appagano la sua voglia di infinito. La vita etica termina allorquando l’uomo realizza di non poter superare la sua natura di essere peccaminoso. Si sente, cioè, al cospetto di Dio, un essere insufficiente, incapace di essere assolutamente buono. Dunque, si pente. E solo allora, accettando per fede che Dio possa comunque salvarci dai nostri peccati, è pronto ad entrare nell’ultimo stadio. 

LA VITA RELIGIOSA: Nell’opera Timore e tremore, infatti, Kierkegaard affronta la vita religiosa che risulta essere una scelta ancora più radicale di quella compiuta nel passaggio dalla vita estetica a quella etica. La figura chiave di questo stadio è infatti
Abramo che contro ogni legge morale, decide unicamente di seguire un comando divino. Difatti questo è il momento in cui l’uomo è solo davanti a Dio, riconosce la propria finitezza e si abbandona all’Assoluto. L’individuo sceglie dunque di credere e tenta di superare l’angoscia e la disperazione che lo costituiscono riconoscendo la propria dipendenza da Dio. Ma la fede non si configura come una scelta rassicurante in quanto l’uomo si ritrova solo, al di fuori della mentalità e dei costumi comuni, a credere in qualcosa che si pone aldilà della ragione o di ogni comprensione. Tuttavia, nonostante il cristianesimo sia “scandalo e paradosso”, è la sola arma che permette al singolo di sfuggire a quel senso di vertigine dato dalle infinite possibilità di cui è costellata la sua vita.
Dio risulta quindi essere un affidamento ed un approdo, seppur problematico e drammatico, che permette di superare la propria inadeguatezza esistenziale. Il credente è rassicurato che, cioè, tutto ciò che è possibile è nelle mani di Dio. 

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